Elena Leoni, campionessa del mondo ed esempio nella vita

Elena Leoni vince il titolo mondiale con Alessandro Spigai
Nel settembre 2015 è diventata campionessa del mondo di pattinaggio artistico in Colombia, ai Campionati di Cali. Ma Elena Leoni un Mondiale lo vive ogni giorno. Lo fa capire a microfoni spenti come davanti alle telecamere.

Il quotidiano e appagante lavoro nella cooperativa sociale Il Bettolino, a Reggiolo in provincia di Reggio Emilia, al fianco di ragazzi disabili, emana un valore inestimabile. Con i picchi più alti che la vita sappia esprimere. E anche la pratica sportiva e il suo amore per il pattinaggio su rotelle, naturalmente, ne può beneficiare.

Un esempio nella vita per chiunque sogni di iniziare a praticare lo sport, visto per una volta come pura occasione di crescita.

La fioraia di Sarajevo e la marcia dei Cinquecento. Incontro con Mario Boccia

Questa è la storia di Svcera. La fioraia di Sarajevo. E' una delle foto simbolo dell’assedio alla capitale bosniaca. L’ha scattata Mario Boccia, fotoreporter italiano. Lui chiese alla donna la nazionalità e il nome. Serba, musulmana o croata? Svcera, la fioraia. La naturalezza che una volta di più riesce a destrutturare l’inganno bellico dell’odio. La fioraia della città assediata che componeva mazzi di fiori di carta, una volta che la follia omicida degli assedianti aveva estirpato gli ultimi fiori di Sarajevo.

Boccia e con lui Raniero La Valle e altre centinaia di italiani furono protagonisti della storica marcia dei Cinquecento. Pacifisti dall’Italia alla Sarajevo assediata con la convinzione di poter cambiare le cose in un mondo che con la Guerra dei Balcani stava per chiudere un'epoca storica, per sempre. Don Tonino Bello, capofila della spedizione, scrisse nel suo diario di Sarajevo: “Nella città assediata trovammo il trionfo della convivenza delle diversità”.

Svetlana Aleksievič, l'umanità e l'inchiesta

Svetlana Aleksievic
Premio Nobel per la letteratura 2015
"E' forse questa oggi la più autentica letteratura", scrive così Claudio Magris nella prefazione al libro "Vittime" di Massimo Nava, riferendosi all'inteso e profondo lavoro di scavo del corrispondente del Corriere della Sera alla ricerca della verità che si cela dietro i più grandi drammi e conflitti della contemporaneità. Ho voluto introdurre con parole italiane, il Premio Nobel per la letteratura 2015 Svetlana Aleksievič. Bielorussa, voce sempre alla ricerca della verità. Per avvicinare la tipologia di letteratura che Aleksievič incarna. Inchiesta giornalistica che fa del tempo passato nei luoghi e tra la gente una chiave determinante. Svetlana è rimasta tre anni nei villaggi di Černobyl'. Diventa sorella degli abitanti, ne riceve la fiducia e ne diventa insuperabile e globalizzata voce. "Il suo strumento d'indagine è l'ascolto, la capacità di stare a lungo, indifesa e modesta, accanto a tante persone comuni", ha scritto Maria Nadotti sul Corriere della Sera a commento del Nobel. Come Nava una voce non allineata alle "verità" diffuse dai media internazionali, una letteratura umana che affonda le proprie radici nell'inchiesta giornalistica.

Ha indagato le pieghe più drammatiche della storia russa sovietica e post-sovietica. Boicottata e poi bandita dalla sua Bielorussia, Svetlana Aleksievic ha vissuto a lungo in esilio forzato. Ma non ha mai attenuato la sua voce di denuncia. Perché in Russia parlare dei crimini di Stalin è ancora un tabù e la vittoria sul nazismo è ancora usata come pretesto per la creazione di un nuovo impero e per la giustificazione di una nuova guerra. Putin – dice Svetlana – ha detto al popolo quello che il popolo voleva sentirsi dire. Ma la popolazione non parla mai di religione né di Putin. E se con la perestrojka in piazza c’erano migliaia di russi, dopo l’assassinio di Anna Poltikovskaja erano solo in 50. Ma la sua voce non si attenua, nemmeno sul disastro di Cernobyl, 30 anni dopo.

A Svetlana Aleksievic è stato assegnato il Premio Nobel per la letteratura 2015. Un mese fa a Mantova ospite del Festival aveva attirato l’attenzione della cultura italiana e internazionale. “Per me non è tanto importante che tu scriva quello che ti ho raccontato, ma che andando via ti volti a guardare la mia casetta, non una ma due volte”. La voce della contadina bielorussa, vittima dell’utopia comunista, che affidava la sua disperazione a Svetlana, non ha mai smesso di crescere. Cernobyl, il modello comunista, le guerre intestine. Sempre scomoda la verità, in Unione Sovietica come nella Russia di Putin e degli oligarchi del gas. L’Accademia svedese ha premiato la Aleksievic per la “sua polifonica scrittura nel raccontare un monumento alla sofferenza e al coraggio dei nostri tempi”. Con il Premio Nobel alla Aleksievic, il pensiero non può non tornare ad Anna Poltikovskaja, che pagò con la vita la ricerca della verità nella Russia di oggi.


Il Kabaddi a Gonzaga. Riconoscimento culturale al contributo indiano e pakistano all'agricoltura

Il kabaddi.
Foto Bhaktalsports.com
Un anno fa, a due passi dal Po, alla riapertura di uno dei tanti caseifici lesionati dal terremoto che nel 2012 mise in ginocchio la Bassa mantovana, un casaro avvicinò il cronista e indicò il ragazzo incaricato di tagliare, con l’arte antica, la prima forma di Parmigiano della nuova vita della cooperativa sociale. “E’ il nostro Messi”, mi dissero. Un ragazzo indiano di trent’anni, considerato dai maestri casari mantovani il migliore del suo tempo. Ora il Messi indiano e i suoi fratelli vengono omaggiati, nella propria lingua sportiva, dall’agricoltura mantovana. La Fiera Millenaria 2015 mette in calendario il trofeo di kabaddi, sport di contatto asiatico. Ecco il derby India-Pakistan a Gonzaga, celebrando il fondamentale contributo delle due etnie all’agricoltura mantovana. All’interno della Millenaria di Gonzaga, uno dei principali appuntamenti fieristici dell’agricoltura del Belpaese, il primo storico derby India-Pakistan in terra italiana. Immaginate una fusione tra i principi del rugby e quelli della lotta a mani nude. Traslata di decine di migliaia di chilometri. Ne esce il kabaddi, sport di contatto che impazza nel continente indiano, già protagonista ai Giochi asiatici. I princìpi che diedero genesi al kabaddi germogliarono sia nel Tamil Nadu, stato indiano del Sud, che nel Punjab, macroregione asiatica divisa tra India e Pakistan. Ad inizio settembre il primo trofeo Fiera Millenaria ha messo di fronte rappresentative di India e Pakistan. E’ il premio, il riconoscimento sportivo e ancor prima culturale del contributo imprescindibile delle immigrazioni indiane e pakistane nella Bassa Padana, etnie che da decenni ricoprono figure chiave nella gestione delle stalle mantovane, e dunque nell’agricoltura mantovana. Nella Bassa mantovana gli indiani sono presenza costante da oltre un decennio. L’osservatorio Provinciale dell'Immigrazione registrava un anno fa la presenza indiana al 33 percento nel piano di zona di Suzzara tra gli immigrati (seguita tra le altre etnie dal Bangladesh all'11,4 percento e il Pakistan al 10) e al 29 percento nel distretto di Viadana (Pakistan al 3%). Due tempi da venti minuti, 12 giocatori per squadra a combattere per guadagnare più punti, per celebrare l’integrazione attraverso lo sport.

Alma Catal, la risposta

Alma Catal in un frame del documentario
Miss Sarajevo di Bill Carter. Foto Radiosarajevo.ba
Prima di tutto è necessario il riferimento al mezzo. Ho conosciuto il volto di Alma grazie allo straordinario lavoro di Bill Carter. La premessa qui è doverosa. Il mezzo è la chiave. Alma è l'adolescente protagonista di Miss Sarajevo, documentario del fotoreporter americano sull'assedio alla città bosniaca.

Il volto di Alma Catal è la risposta al fondamentalismo che negli anni Novanta avrebbe voluto cancellare la Bosnia Erzegovina multietnica. Era ancora una bambina quando, con coraggio, lucidità, intelligenza e personalità, nel dramma dell'assedio con parole semplici rispose con la più destrutturante naturalezza alle domande e alla telecamera di Bill Carter. La semplicità contro la follia e la strategia dell'odio delle milizie serbo-bosniache. "Sono musulmana, ma vado in chiesa e in moschea. Credo in Dio, c'è solo un Dio". Lo scandì, giovanissima, con una eccezionale padronanza della lingua inglese. Segno di uno stato di salute e avanguardia straordinario della gioventù sarajevese di inizio anni Novanta. La cultura che risponde al razzismo. Paradigma che potrebbe essere facilmente trasportato all'attualità del dramma dei migranti che scappano da guerra e fame in direzione del Vecchio Continente.

"Il rock e il metal ce li hanno insegnati i profughi", di recente un amico croato mi ha raccontato di come le comunità e le città croate, all'inizio della guerra furono estremamente arricchite dalle conoscenze musicali, linguistiche e modaiole dei giovani profughi bosniaci che ospitavano. Scappavano dalla guerra ed esportavano la loro cultura. Parrebbe un ossimoro, invece è un dettaglio poco noto dell'assedio di Sarajevo. La capitale bosniaca nella tragedia emanava una meravigliosa aura culturale, che i serbo-bosniaci di Karadžić avevano voluto simbolicamente annientare con la tragica distruzione della biblioteca nazionale di Sarajevo dell'agosto 1993. Dalle montagne hanno messo a fuoco la città di Sarajevo, ne hanno ferito profondamente l'anima ma non ne hanno cancellato la cultura.

Quel volto, genuino, di Alma è la miglior risposta - in presa diretta - a chi voleva cancellare l'identità, l'esempio vincente di multiculturalità della Sarajevo cosmopolita. Alma, e con lei gli altri giovani sarajevesi assediati, parlava inglese, cantava gli Ace of Base, il pop europeo e il rock americano all'interno di un'automobile sventrata dai mortai e mostrava indice e medio alzati alla telecamera di Bill Carter. Con il passare del tempo della città assediata il suo umore cambiò, il suo viso passò da quello coraggioso e spensierato di bambina a quello preoccupato e disincantato dell'adolescente cresciuta troppo velocemente. Il documentario la segue. Lei sopravvive. Oggi è adulta, vive a Sarajevo e (naturalmente) insegna inglese.

"Is there a time for first communion. A time for East 17. Is there a time to turn to Mecca. Is there time to be a beauty queen". Versi poetici nella canzone Miss Sarajevo degli U2, ma la vera poesia è Alma. La risposta.


(Di seguito due brevi documentari di Bill Carter che testimoniano il reincontro di Alma con gli U2 ad un concerto a Zagabria)

Rifugio, l'ultima alternativa al turismo di massa in montagna

Il rifugio Vajolet, nel cuore delle Dolomiti. A 2.243 metri.
L'antica civiltà montanara è un patrimonio da esplorare e condensa in sé valori che spesso la modernità ha cancellato, colpevolmente sostituito o riposto in una polverosa e semidimenticata soffitta. Esplorare la vita di montagna, o quel che ne resta, è un eccellente viatico per ritrovare alcuni degli inestimabili valori che racchiudeva e, talvolta, ancora racchiude.

Come ben descritto nel tempo da saggi e periodici specializzati, si possono distinguere tre fasi della storia recente della vita in montagna. La prima è la civiltà montanara classica: quella della fatica, della povertà e del lavoro manuale che piegava animo e schiena. Scomparsa tra la fine del diciannovesimo e l'inizio del ventesimo secolo. La seconda quella, sorta a inizio Novecento e poi rilanciata dopo la Seconda guerra mondiale, del primo turismo alpino. Con la nascita di figure nuove, come la guida alpina, ad accompagnare ad altissime quote rappresentanti di benestanti famiglie o pionieri dell'alpinismo in quota. Infine la terza, quella del turismo di massa e della cementificazione selvaggia dei centri in valle. Le seconde case in altura, gli alberghi figli del gigantismo edificatorio, e l'agosto da tutto esaurito a duemila metri. Dalla secolare detenzione di altissimi valori alla perdita della bussola.

Ritrovare un angolo intatto è oggi molto complesso. Una minima riproduzione di quanto in grossa parte perduto è rintracciabile nella vita di rifugio. Un'ultima alternativa al turismo di massa in alta quota. E' una concezione diversa, tuttora distante, di soggiorno nell'imperante turismo di massa. Ritrovare parte della pura civiltà della montagna presuppone due imprescindibili condizioni: la preclusione all'arrivo diretto di automobili e la distanza dall'arrivo diretto di impianti di risalita. Un luogo che possa essere privo di accesso diretto di macchine e funivie o seggiovie, specie la sera, è ancora in grado di regalare scorci di inarrivabile purezza. Le esperienze a rifugi come il Vajolet o il Cauriol nei gruppi di Catinaccio e Lagorai oppure Selvata e La Montanara nelle dolomiti del Brenta non lasceranno insensibili gli animi. A patto di essere capaci a rinunciare, o quanto meno mettere in discussione il superfluo e ritrovarsi, per una volta, faccia a faccia con sé stessi.

Il presente articolo non vuol essere una lista di consigli su questo, quello o quell'altro luogo da visitare. Per consultare un bel blog che invece accoglie gli amanti della montagna tra rifugi, escursioni e immagini, vi rimando al sito: http://miemontagne.blogspot.it/. 

Raccontare un percorso, anzi scriverne uno

Mantova Beat&Bit
casa editrice Sometti.
Recentemente ho partecipato ad una bella cena, che non avrebbe conosciuto esistenza, forma e partecipanti senza un libro. Un saggio, per la precisione. La saggistica da sempre racconta e analizza tracciati e percorsi, ma talvolta può anche crearne di nuovi, specie se affonda le mani nella più profonda contemporaneità. Quando al racconto riescono ad affiancarsi la partecipazione attiva e la condivisione delle storie e delle vicende narrate, significa aver centrato un obiettivo probabilmente più rilevante di quello, iniziale, letterario.

Non semplice ordine ed elencazione della creatività, ma lo strumento per avvicinare stelle tra sé distanti e avvicinarne i lontani singoli percorsi. Mantova Beat&Bit di Fabio Veneri (a margine trovate il servizio realizzato nei mesi scorsi di presentazione dell'opera per Telemantova) ha centrato in pieno l'obiettivo descritto. Da saggio, il libro diventa strumento. Le presentazioni, solitamente mere vetrine, trasformate in punti di partenza su nuovi affacci altrimenti non percorribili. Ecco dunque prendere forma una cena altrimenti impensabile, testimonianza di quanto possa creare un saggio sulla creatività. Senza non ci sarebbero state posate, primi, secondi, caffè e amari.